Nella nota che segue Confindustria commenta la circolare congiunta dei Ministeri del lavoro e della salute che reca Aggiornamenti e chiarimenti, con particolare riguardo ai lavoratori e alle lavoratrici “fragili” del 4 settembre 2020 e si svolgono alcune considerazioni sul tema della compatibilità tra le condizioni di quarantena e la prestazione di attività lavorativa (a commento critico di un articolo apparso sulle colonne del Corriere della sera del 4 settembre 2020).

I Ministeri del lavoro e della Salute hanno emanato, il 4 settembre, una circolare (allegata) avente ad oggetto la sorveglianza sanitaria dei lavoratori cd fragili, che aggiorna, su questo punto, quanto già disciplinato con la precedente circolare del 29 aprile 2020.

Premessa la rilevanza della sorveglianza sanitaria anche nella fase attuale, la circolare espone innanzitutto il quadro normativo di riferimento, essenzialmente fondato sulla previsione generale (art. 5 dello Statuto dei lavoratori) e sulla disciplina specifica contenuta nel Dlgs n. 81/2008 (in particolare l’art. 41).

Ancora una volta, non si risolve la difficile convivenza di questi due diversi regimi, convalidando la difficile compresenza del ruolo del medico competente e dei servizi ispettivi degli enti previdenziali anche per l’accertamento della idoneità del lavoratore alla mansione lavorativa.

Nel punto 3 la circolare offre una nozione di fragilità.

Va ricordato che il Protocollo del 14 marzo 2020, aggiornato il 24 aprile successivo, prevede già che

il medico competente “segnala all’azienda situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti e l’azienda provvede alla loro tutela nel rispetto della privacy”;

“alla ripresa dell’attività, è opportuno che sia coinvolto il medico competente per la identificazione dei soggetti con particolari situazioni di fragilità”

“è raccomandabile che la sorveglianza sanitaria ponga particolare attenzione ai soggetti fragili anche in relazione all’età”.

La circolare, aggiornando il dato epidemiologico anche con riferimento all’età, evidenzia che – sulla base delle informazioni scientifiche più recenti – il concetto di fragilità va individuato “in quelle condizioni dello stato di salute rispetto alle patologie preesistenti che potrebbero determinare, in caso di infezione, un esito più grave o infausto”. Tale concetto è soggetto evidentemente al progressivo aggiornamento delle conoscenze di tipo epidemiologico e scientifico.

Viene dunque escluso espressamente che il solo fattore dell’età (nonostante la convinzione degli antichi, secondo cui senectus ipsa est morbus) possa – in assenza di comorbilità – costituire, di per sé, un fattore di maggior rischio.

Sulla base di questi chiarimenti, i due Ministeri espongono alcune indicazioni operative.

In primo luogo, la circolare chiarisce (e si tratta di un rilievo importante) che i lavoratori devono essere messi in condizioni di “richiedere al datore di lavoro l’attivazione di adeguate misure di sorveglianza sanitaria” e che “le eventuali richieste di visita dovranno essere corredate della documentazione medica relativa alla patrologia diagnosticata a supporto della valutazione del medico competente”.

Si conferma così che l’onere di attivare la sorveglianza e di evidenziare la propria condizione è posto in capo al lavoratore e non affidato alla ricerca da parte del datore di lavoro (che potrebbe anche non conoscere, nemmeno per il tramite del medico competente, eventuali patologie del lavoratore). Aspetto rilevante ai fini della responsabilità, che non può fondarsi sulla presenza di condizioni legittimamente ignote al datore di lavoro. La documentazione sarà consegnata, ovviamente, non al datore di lavoro ma al medico competente (o all’ente pubblico prescelto laddove il datore di lavoro non abbia l’obbligo di nominare il medico competente), per cui non sussistono questioni inerenti la privacy.

In particolare, si evidenzia che, laddove la circolare, nelle indicazioni operative, prevede che la richiesta di visita medica debba essere corredata della documentazione medica, evidentemente la richiesta va rivolta al datore di lavoro ma la documentazione medica dev’essere fornita esclusivamente al medico competente o al medico pubblico.

Laddove non sussista l’obbligo di nominare il medico competente, il datore di lavoro che non abbia ritenuto di nominarne uno (si ricorda che l’obbligo dell’art. 83 del DL n. 34/2020 è decaduto il 31 luglio 2020, non essendo stata prorogata la relativa previsione, come ricordano espressamente i Ministeri) potrà ricorrere agli istituti previdenziali e ispettivi richiamati dall’art. 5 della legge n. 300/1970.

Indicata l’autorità competente a svolgere la sorveglianza, la circolare descrive il contenuto del giudizio medico-legale, descrivendo però solamente il percorso relativo al medico competente: i medici pubblici dovranno attenersi alle disposizioni della circolare, per espressa disposizione della stessa.

Secondo la circolare, ai fini della valutazione della condizione di fragilità, il datore di lavoro deve fornire al medico competente tutte le informazioni sulla mansione svolta dal lavoratore, sulla postazione o ambiente di lavoro, sul documento di valutazione dei rischi e sulle misure adottate in adesione al Protocollo condiviso del 24 aprile 2020. La previsione appare del tutto ultronea, posto che il medico competente deve ovviamente già conoscere tutti questi contenuti.

La circolare precisa, tra le indicazioni operative, che – per i datori di lavoro che non abbiano l’obbligo di nominare il medico competente – c’è la possibilità che sia il lavoratore a richiedere una visita per la verifica del proprio stato di fragilità e si tratterà, precisa la circolare, di una visita ex art. 5 della legge n. 300/1970.

In questa ipotesi, quindi, il datore di lavoro dovrà fornire all’ente pubblico (che seguirà e indicazioni della circolare) i dati che avrebbe dovuto fornire al medico competente.

Sulla scorta di queste informazioni, il medico competente – o l’ente pubblico – esprimerà il proprio giudizio di idoneità e fornirà, in via prioritaria, indicazioni per l’adozione di soluzioni maggiormente cautelative per fronteggiare il rischio da covid19. Laddove non vi siano soluzioni alternative, emetterà un giudizio di non idoneità temporanea.

Si tratta di un punto rilevante della circolare: al medico viene infatti rimesso il giudizio se lo stato di riconosciuta fragilità sia o meno compatibile con il lavoro, anche attraverso l’adozione di misure maggiormente cautelative per la salute, ossia anche ulteriori rispetto a quelle ordinarie, previste anche dal Protocollo.

Lascia piuttosto perplessi la priorità per il mantenimento al lavoro piuttosto che – data l’accertata comorbilità ed il maggior rischio oggettivo – l’adozione di misure alternative.

La circolare richiama anche la opportunità di ripetere periodicamente la visita in relazione all’evoluzione scientifica.

I Ministeri non chiariscono le conseguenze dell’eventuale giudizio di inidoneità (il che spiega la priorità riservata al mantenimento al lavoro con  adozione di soluzioni maggiormente cautelative): si tratta, invece,  di un aspetto rilevante, in quanto il giudizio di inidoneità non riguarda la mansione specifica, ma la condizione di fragilità, dove il rischio che conduce a quel giudizio è legato alla compresenza di altro personale, al mezzo di trasporto utilizzato per recarsi al lavoro, alla possibilità o meno di svolgere attività in smart working, etc.

Sarebbe allora stato opportuno che la circolare, in presenza di un lavoratore astrattamente idoneo alla mansione ma inidoneo al lavoro per l’assenza di alternative alla esposizione ad un rischio non dipendente dal datore di lavoro (il covid19), legittimasse estensivamente strumenti di gestione rientranti nella tutela assicurata dallo Stato per l’emergenza (ad esempio, prevedesse la possibilità per il medico competente di porre il lavoratore in quarantena con equiparazione alla malattia quale soluzione estrema ed in mancanza di alternative).  

I due Ministeri confermano la mancata proroga della sorveglianza sanitaria eccezionale prevista dall’art. 83 del DL n. 34/2020, circostanza alla quale la circolare attuale sembra ora dare copertura, e dispongono che le visite mediche richieste dai lavoratori ai sensi di quella normativa (quindi entro il 31 luglio) verranno condotte secondo le regole della circolare in commento.

Da ultimo, la circolare disciplina le modalità di espletamento delle visite, che dovranno ovviamente garantire la massima sicurezza sia per l’operatore sanitario sia per i lavoratori. Si conferma, poi, la possibilità di differire la visita periodica e quella (laddove prevista) disposta alla cessazione del rapporto di lavoro e si sollecita una particolare attenzione alla opportunità di evitare quegli esami che, coinvolgendo particolarmente l’apparato respiratorio (spirometrie., alcooltest, etc), potrebbero risultare particolarmente rischiosi per il personale sanitario.

In conclusione, la circolare – al di là dei due chiarimenti inerenti l’esigenza di non considerare autonomamente il fattore età ai fini della individuazione dei lavoratori fragili e la conferma della necessità dell’iniziativa del lavoratore che intenda chiedere una valutazione della propria condizione di fragilità – non offre gli opportuni chiarimenti, da tempo richiesti da Confindustria, circa le conseguenze della dichiarazione di non idoneità del lavoratore e della possibilità di porlo in quarantena.

Approfittiamo del commento alla circolare ministeriale sulla sorveglianza sanitaria per i lavoratori fragili per intervenire sulla notizia, apparsa sulla stampa il 4 settembre (Il corriere della sera, pagina, 9, articolo dal titolo “Lavoratori, il caso della quarantena – Vietato accendere il computer dell’ufficio”) secondo la quale sarebbe vietato lavorare ai lavoratori in quarantena perché positivi al covid19 o perché di ritorno da zone a rischio (o anche perché sono stati a contatto stretto con un caso accertato di covid19).

A fronte di questo divieto si potrebbe pensare, secondo l’articolo, alla possibilità di far lavorare i dipendenti con la modalità dello smart work, solamente, però, con il loro consenso.

È evidente la non condivisibilità di tali affermazioni.

La quarantena cautelare (come l’isolamento fiduciario domiciliare) non sono relativi a persone positive ma a chi è stato a contatto stretto con un positivo o proviene da Paesi a rischio: dunque nessuna malattia in corso.

Il lavoratore in quarantena perché positivo al tampone rino/faringeo è posto in quarantena sulla base del certificato medico che attesta la positività e dispone il conseguente obbligo di isolamento domiciliare o la sorveglianza domiciliare (laddove non sia necessario il ricovero ospedaliero).

Così, dunque, il lavoratore non positivo in quarantena/isolamento cautelare non è ovviamente malato (né può valere in contrario l’equiparazione alla malattia a soli fini di tutela economica, che invece sta proprio a dimostrare che non si tratta di malattia ai fini dell’art. 2110 del codice civile), mentre il lavoratore positivo, pur in possesso di certificazione medica che prescrive l’obbligo quarantena, potrebbe non avere alcuna “malattia”.

Per malattia, infatti, non può intendersi ogni lesione o alterazione organica o funzionale del corpo umano allo stato acuto, ma solo quella con caratteristiche tali da rendere impossibile al lavoratore di eseguire le prestazioni dovute; ovvero, come di recente riaffermato dalla Cassazione, “il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità” (Cass., 25 ottobre 2019, n. 4155).

Del resto, la giurisprudenza non esclude nemmeno in via assoluta che il lavoratore, seppure in malattia, possa prestare attività lavorativa, addirittura per altro datore di lavoro, laddove, in questo caso, la condotta non sia in contrasto con gli obblighi di correttezza e buona fede. Ne consegue che, a maggior ragione, il lavoratore non positivo che si trovi in quarantena/isolamento cautelare deve poter lavorare, anche in smart work, per il proprio datore di lavoro, laddove la modalità non incida negativamente (pregiudicandola o ritardandola) la guarigione.

È evidente che il lavoratore, per il sol fatto di essere positivo, non è necessariamente né malato né sintomatico, e ne viene prescritto l’allontanamento o l’isolamento al fine esclusivo di non diffondere il virus e non in considerazione della sua presunta impossibilità a rendere la prestazione lavorativa.

Ne consegue che, salve le ipotesi in cui ci si trovi in presenza di un certificato medico che prescrive in qualche modo il riposo precludendo ogni attività lavorativa, non vi è alcuna controindicazione al lavoro in smart work, con le dovute cautele imposte dall’isolamento.

Ed è proprio la vicenda dei lavoratori fragili a dimostrare l’erroneità della indicazione apparsa sulle colonne del Corriere della sera.

 Sono fragili quei lavoratori che hanno – come dice la circolare in commento – “malattie cronico-degenerative (ad es. patologie cardiovascolari, respiratorie e dismetaboliche)” o anche patologie “a carico del sistema immunitario e quelle oncologiche”.

È di tutta evidenza che queste “malattie” non impediscono di lavorare; tuttavia, la comorbilità che si genera con l’esposizione al rischio di contagio incrementa la potenzialità di un esito più gravo o infausto.

Per questo, quel malato che, in assenza di rischio di contagio, potrebbe continuare tranquillamente a lavorare, dev’essere oggetto di particolari attenzioni in caso di permanenza al lavoro. Resta consigliabile – ove possibile – il suo allontanamento dalle potenziali fonti di rischio (che potrebbero risiedere nelle modalità di lavoro o anche di spostamento casa-lavoro).

È allora evidente che, se può continuare a lavorare (in azienda o a casa) il lavoratore fragile perché sicuramente portatore di una patologia anche grave ma con le dovute cautele (opzione prioritaria rispetto al giudizio di inidoneità assoluta, secondo la circolare, punto 3.3), non si vede perché non possa continuare a lavorare, con il dovuto isolamento e con il rispetto di tutte le prescrizioni del caso, il lavoratore, positivo o meno, che si trovi in quarantena o in isolamento fiduciario, tutte le volte che non sia giudicato “malato” ai fini lavorativi, ossia quando la eventuale patologia in atto, opportunamente certificata, renda impossibile eseguire le prestazioni dovute.

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