Il Decreto Legge n. 52/2021 proroga lo stato di emergenza fino al 31 luglio 2021  per cui, fino a questa data, sono prorogati anche i seguenti termini correlati con lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 ossia, in particolare:

Analogamente viene prorogato al 31 luglio 2021 il DL 33/2020 che prevedeva, tra l’altro, il divieto di mobilità dalla propria abitazione per le persone in “quarantena in quanto positive” (art. 1, comma 6), l’applicazione della quarantena ai contatti stretti di soggetti positivi (art. 1, comma 7), il distanziamento di un metro nelle riunioni (art. 1, comma 10), l’applicazione dei protocolli per le attività produttive con sospensione delle attività che
non garantiscano adeguati livelli di sicurezza (art. 1, commi 14 e 15) ed il sistema sanzionatorio (art. 2).

Proroga del Protocollo del 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020 (art. 1)
L’art. 1, comma 1, proroga fino al 31 luglio 2021 il DPCM del 2 marzo 2021 (che era già stato prorogato dal 7 al 30 aprile dal DL n. 44/2021).
Evidenziamo che l’art. 4 di quel DPCM prevede che “sull’intero territorio nazionale tutte le attività produttive industriali e commerciali rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per
il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all’allegato 12, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza,
il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del COVID-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministro del lavoro e delle
politiche sociali e le parti sociali, di cui all’allegato 13, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del COVID-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo
2020, di cui all’allegato 14”.

Nel resto del provvedimento non sono presenti ulteriori disposizioni che modificano i contenuti di questa disposizione. La principale conseguenza di questa proroga – se non interverranno precisazioni formali o modifiche normative – è che il Protocollo del 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020, resta in vigore fino al 31 luglio 2021 e il nuovo protocollo sottoscritto il 6 aprile 2021 non entra in vigore.
In effetti, la richiamata disposizione del DPCM, non solo non fa riferimento al Protocollo del 14 marzo 2020 “e successive modifiche ed integrazioni” (il che avrebbe consentito di ritenere direttamente subentrato il nuovo Protocollo del 6 aprile 2021), ma fa espresso riferimento a quello “di cui all’allegato 12” del DPCM, il che conferma come non sia possibile nessuna sostituzione in corsa.
La violazione del Protocollo ha diverse conseguenze sanzionatorie formali: l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 4 del DL 19/2020 in caso di violazione “delle disposizioni di cui agli art. 1…” (espressamente richiamate dall’art. 13 del DL in commento), la sospensione dell’attività, la violazione dell’art. 29bis della l. n. 40/2020.
Quest’ultima disposizione, per la verità, fa espresso riferimento al Protocollo del 24 aprile 2020 “e successive modifiche ed integrazioni”, per cui, ai fini del rispetto dell’art. 2087 cc, occorre far riferimento al nuovo
Protocollo. Il che, però, non fa che approfondire la criticità interpretativa, perché applicando nuovo protocollo, si viola la normativa emergenziale (che fa riferimento al vecchio Protocollo) e, applicando il vecchio, si viola l’art. 2087 cc, perché si applica un Protocollo non aggiornato.
È quindi difficile ritenere che – sul piano formale – sia legittimo adottare “di fatto” il nuovo Protocollo del 6 aprile 2021, che non risulta peraltro ancora formalmente sottoscritto da tutte le parti intervenute nella sua elaborazione.
Confindustria ha rappresentato la questione ai Ministeri del lavoro e della salute prima della pubblicazione del DL in Gazzetta Ufficiale, ma evidentemente non ci sono stati i margini per la integrazione del provvedimento.
L’unica via per ovviare al problema interpretativo – fino ad auspicabili interventi correttivi formali – sembra essere quello di modificare i Protocolli aziendali, i quali, a norma del Protocollo del 14 marzo 2020, ne
seguono le misure, che sono tuttavia “da integrare con altre equivalenti o più incisive secondo la peculiarità della propria organizzazione”. Queste disposizioni potrebbero essere quelle – modificative o integrative – presenti nel Protocollo del 6 aprile 2021, in quanto “seguono la logica della precauzione e seguono e attuano le prescrizioni del legislatore e le indicazioni dell’Autorità sanitaria”.
Soluzione che si rafforzerebbe anche con il conseguente rispetto dell’art. 2087 cc, nel momento in cui si applica il Protocollo aggiornato (coerentemente con quanto previsto dall’art. 29bis della legge n. 40/2020).
Per quanto si tratti della soluzione probabilmente più opportuna, appare comunque indispensabile una indicazione formale da parte del Governo.

Spostamenti per motivi di lavoro (art. 2)
Relativamente al tema degli spostamenti, l’art. 2 del decreto prevede che gli spostamenti in entrata e in uscita dai territori collocati in zona arancione o rossa sono consentiti, oltre che per comprovate esigenze lavorative o per situazioni di necessità o per motivi di salute, nonché per il rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione, anche ai soggetti muniti delle certificazioni verdi COVID-19.
Sembrerebbe, quindi, che i lavoratori – che ad oggi per gli spostamenti all’estero devono rispettare le note limitazioni al rientro – potrebbero rientrare senza soggiacere all’obbligo di quarantena/sorveglianza sanitaria,
attualmente previsto a seconda del Paese di provenienza (in caso, ovviamente, di esclusione della positività al virus).
La previsione apre all’analisi di un delicato profilo attinente alla tutela della privacy, in quanto la gestione del lavoratore in missione potrebbe riguardare anche la conoscenza del “beneficio” del rientro senza
quarantena/sorveglianza sanitaria ovvero dello spostamento libero per un periodo superiore alle 120 ore.

L’introduzione delle certificazioni verdi potrebbe risolvere alcuni dubbi anche in materia di trasferte/rientri dall’estero.

Le certificazioni verdi possono essere infatti conseguite se attestano:

Le certificazioni rilasciate in uno Stato terzo a seguito di una vaccinazione riconosciuta nell’Unione europea e validate da uno Stato membro dell’Unione, sono riconosciute come equivalenti alle certificazioni verdi e valide se conformi ai criteri definiti con circolare del Ministero della salute.

Certificazioni verdi Covid19 e privacy nei luoghi di lavoro (art. 9)
La disposizione anticipa l’iniziativa comunitaria di introduzione di una certificazione di avvenuta vaccinazione ed interseca l’aspetto lavorativo, oltre che per il profilo della gestione delle trasferte all’estero, anche per la
gestione del lavoratore che sia in possesso del certificato di avvenuta vaccinazione.
Ricordiamo, a questo proposito, che il Garante della privacy ha pubblicato tre FAQ nelle quali precisa che il datore di lavoro non può chiedere conferma ai propri dipendenti dell’avvenuta vaccinazione, non può
chiedere al medico competente i nominativi dei dipendenti vaccinati e che la vaccinazione anti covid-19 dei dipendenti non può essere richiesta come condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e per lo svolgimento di
determinate mansioni.
Si tratta di un profilo di particolare interesse, in quanto seguendo queste coordinate, il datore di lavoro dovrebbe considerare irrilevante l’avvenuta vaccinazione (non potendone venire a conoscenza) e continuare a gestire i lavoratori esclusivamente secondo le regole vigenti (distanziamento, mascherina, igiene), cioè senza assegnare alcuna valenza dirimente alla vaccinazione, nonostante l’enorme impatto che questa ha sulla tutela della salute del lavoratore (il quale, secondo l’unanime pensiero scientifico, anche in caso di contagio, non subirebbe le pericolose conseguenze del lavoratore non vaccinato) e dei terzi (perché la capacità di contagio del soggetto vaccinato, seppur presente, è notevolmente inferiore a quella del positivo non vaccinato).
In questo caso, si pone il problema di adottare delle tutele formali per il datore di lavoro cui risulta precluso gestire i lavoratori secondo i normali principi di massima sicurezza e di coerenza, che consiglierebbero di
organizzare l’attività tenendo conto delle condizioni di ciascun lavoratore (in questo caso, della condizione di vaccinato, che lo espone a rischi notevolmente inferiori in caso di contagio).
Una ipotesi potrebbe essere quella di richiamare nel Protocollo ed allegare il parere del Garante al fine evidenziare come la avvenuta vaccinazione – che non costituisce parametro di idoneità o meno ai fini della
sorveglianza sanitaria – non può essere resa nota al datore di lavoro (nemmeno con la volontà del lavoratore), per cui non è possibile gestire l’organizzazione aziendale valutando l’opportunità di distinguere mansioni e attività distinguendo tra lavoratori non vaccinati e lavoratori vaccinati.
A breve, dovrebbero essere emanate altre indicazioni da parte del Garante in merito alla vaccinazione, per cui appare opportuno attendere la conoscenza dei relativi contenuti per poter adottare la soluzione migliore.

Durata della sorveglianza sanitaria e dell’isolamento fiduciario al rientro dall’estero
Evidenziamo che, secondo il DPCM del 2 marzo 2021 – la cui validità è stata prorogata fino al 31 luglio 2021 – la sorveglianza sanitaria ha una durata di 14 giorni (art. 51) mentre, secondo l’art. 2 dell’Ordinanza del Ministro della salute del 16 aprile 2021 – la cui vigenza termina il 30 aprile 2021 – tale durata è ridotta a 10 giorni.
Poiché il recente DL n. 52/2021 non ha esteso l’efficacia dell’Ordinanza, dal 1° maggio torneranno ad applicarsi le misure del DPCM 2 marzo 2021.
Per superare la criticità, Confindustria ha sollecitato, ottenendone positivo riscontro dagli uffici del Ministero della salute, la proroga dell’Ordinanza del Ministro della salute.

Sanzioni (art. 13) ed entrata in vigore (art. 14)
L’art. 13 sanziona (comma 1) – tra l’altro – la violazione dell’art. 1, comma 1, ossia il rispetto del Protocollo contenuto nel DPCM del 2 marzo 2021, il che esclude si possa riferire la sanzione ad un testo differente da quello riportato in allegato al DPCM stesso.
Con riferimento all’entrata in vigore, si torna ad evidenziare che, quindi, a decorrere dal 23 aprile 2021, salvo differenti indicazioni formali, permarrà in vigore il vecchio Protocollo del 14 marzo 2020, come integrato il
24 aprile 2020.


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